Martin e quel Gandalf che "doveva rimanere morto"
Se seguite una qualsiasi pagina social relativa alla narrativa fantasy, probabilmente avete visto circolare su internet una vignetta-meme in cui George R.R. Martin, scrittore di Cronache del Ghiaccio e del Fuoco - adattata nella serie TV Game of Thrones - afferma che Gandalf, ne Il Signore degli Anelli, sarebbe dovuto rimanere morto dopo il suo scontro con il Flagello di Durin, il Balrog che si annidava nelle miniere di Moria. Dal momento che ogni tanto riprende a girare, scatenando le inutili ire di gran parte dei lettori, penso che possa avere un senso mettere qualche puntino sulle i.
La reazione più comune alla vignetta è relativa al fatto che Martin non stia scrivendo i suoi libri e che pretenda di spiegare agli altri come scrivere i loro. Subito dopo arrivano i commenti su come Martin non possa paragonarsi a Tolkien e su come, quindi, dovrebbe "restare al suo posto". Il problema è che, come spesso accade, non sempre in malafede, Martin non ha criticato nulla a Tolkien (cosa che, per inciso, potrebbe fare tranquillamente come chiunque altro, Tolkien è un essere umano).
Tutto si basa su una dichiarazione che Martin ha effettivamente fatto, nello specifico durante un’intervista al podcast Bullseye nel 2011. In quell’occasione, Martin ha parlato della sua visione della morte e della resurrezione dei personaggi nelle storie fantasy, confrontandola con quella di Tolkien. Martin ha spiegato che, a suo avviso, se un personaggio muore e poi torna in vita deve essere un’esperienza trasformativa per lui, qualcosa che lo cambia profondamente. Gandalf il Grigio torna come Gandalf il Bianco e, per quanto migliorato, più puro, più autorevole, poco è cambiato nel suo modo di essere. Questo vuol dire che Gandalf è scritto male? No, vuol dire che è un personaggio che segue una logica e ha una funzione diversa rispetto ai personaggi gestiti come li gestisce Martin.
In merito al tornare in vita in sé, Martin ha aggiunto: “Per quanto ammiri Tolkien, ho sempre pensato che Gandalf sarebbe dovuto rimanere morto. Le sue ultime parole sono: ‘Fuggite, sciocchi!’. Erano potenti e mi avevano colpito molto”. Si parla quindi delle impressioni da lettore di un appassionato che, colpito dalla dipartita di un personaggio centrale, ha in una certa misura “nostalgia” di quel senso di perdita che Tolkien ha saputo creare.
Guardando all’intera intervista e al contesto di quelle parole, si capisce che Martin non sta affatto cercando di “correggere” Tolkien quanto di parlare del proprio stile narrativo. Martin, infatti, ha sempre dichiarato di essere un grande ammiratore del Professore e di considerarlo "una montagna che si eleva sopra ogni altro autore fantasy". Ha anche dichiarato apertamente che Il Signore degli Anelli è stato una fonte di ispirazione per la sua saga di Game of Thrones, pur con le evidenti differenze di approccio in merito alla moralità dei personaggi e alla gestione dei loro archi narrativi. Questo non stupisce: qualsiasi fantasy successivo a Tolkien gli deve probabilmente la sua stessa esistenza, considerando quanti autori di oggi saranno cresciuti leggendo Il Signore degli Anelli. Pensare che un autore della rilevanza che ha George Martin non abbia consapevolezza di quello che Tolkien ha rappresentato e rappresenta per il suo mondo è un’assurdità. L’intento era casomai quello di evidenziare le differenze tra due modi diversi di concepire il fantasy, in quanto è noto come Martin sia diventato famoso grazie a una sorta di “decostruzione degli stereotipi” che, invece, trovano nel Legendarium tolkeniano la loro genesi.
Quelle su Gandalf non sono tra l’altro state le uniche parole di Martin in merito alla gestione della storia e del mondo nelle opere di Tolkien: ha ironizzato, ad esempio, sul fatto che non viene mai raccontato che tipo di re sia Aragorn in termini di politiche di governo o che non viene spiegata l’economia della Terra di Mezzo. Ora, che Martin possa stare simpatico o meno, non si può pensare che non capisca come questi aspetti non siano approfonditi in quanto non si trovano al centro della storia narrata da Tolkien. Queste parole assumono invece tutto un altro livello di interesse quando le si vede per quello che sono: un’analisi di quanti sono i modi in cui si può scrivere fantasy, di quali caratteristiche di un mondo possono trovarsi al centro degli eventi e possano farsi portatrici del messaggio dell’autore, analisi che dovrebbe essere ricercata e accolta con favore da tutti gli appassionati, a meno che non si pretenda di leggere per sempre la stessa cosa. Proprio a tal proposito, c’è da apprezzare la varietà che Cronache del Ghiaccio e del Fuoco ha saputo portare in un contesto nel quale, anche grazie al successo della trilogia cinematografica di Peter Jackson, il fantasy sembrava indissolubilmente legato ai tropi narrativi tolkeniani e a razze come elfi, nani e orchi.
Martin non ha nulla da “ridire” su Gandalf, su Tolkien o su Il Signore degli Anelli. Ne riconosce la complessità e il valore come qualsiasi persona appassionata di letteratura fantastica. Quello che invece è probabilmente vero è che Martin, vedendo quanto scandalo ha suscitato quella che è stata percepita come una critica a Tolkien, ci abbia preso gusto. Può benissimo essere che sfrutti questa intolleranza alle critiche di un certo tipo di appassionati per sollevare vespai, ottenere visibilità e far saltare sulla sedia chi non vive bene neppure un petalo di rosa che sfiora i suoi beniamini. Perché, d’altronde, è sempre divertente scandalizzare chi è talmente appassionato di qualcosa da essere diventato una miccia corta, pronto a lanciarsi in invettive sui social dove basta scrivere qualcosa di caustico per sentirsi di “averla fatta vedere” a qualcuno.